NAPOLI – Il dramma è dramma. È scuro, duro, forte, terribile e cruento. Ma ha diritto, il dramma, ad essere epico? A cercare una qualche epicità? È questa la domanda che non posso non pormi dopo la visione del Macbeth di Shakespeare, per la regia di Luca De Fusco, in scena fino a domenica al Teatro Mercadante di Napoli.
Prosecuzione ideale del lavoro di De Fusco avviato con Antonio e Cleopatra e Orestea, il lavoro del 2016 firmato dal direttore del Mercadante ha un problema che risponde alle stesse pretese dell’Orestea dello scorso anno: cercare inutilmente qualcosa che non c’è.
Il testo shakespeariano è ostico, complicato, legato a costumi e tempi lontani dai nostri, ma la traduzione di Gianni Garrera riesce brillantemente a complicare tutto non concedendo nulla ad uno spettatore lasciato già abbastanza solo dalla regia e, poi, abbandonato anche dal testo.
Gli attori sono eccezionali, Luca Lazzareschi è un Macbeth di grande spessore e, soprattutto, Gaia Aprea è una Lady Macbeth a tutto tondo, come dovrebbe essere la vera protagonista del dramma.
L’immagine delle streghe, eterea presenza del testo originale, è smantellata, smaterializzata, vaporizzata e ricondotta in pura interpretazione attraverso un gioco di danze e voci fuori campo davvero ben fatto (ma male supportato).
La scena è unica, rigida, drammatica essa stessa. Uno, dieci, mille luoghi che compaiono e scompaiono in un gioco di proiezioni che funziona e, molto più spesso, non funziona. Ed è questo quello che più dispiace, la ricerca di una digitalità aggressiva, talvolta inutile effettistica che pretende di sorprendere ma, in effetti, non svela proprio nulla. L’effetto è bello quando è fatto bene, ma qui non lo è. E le pretese organiche, effettistiche, televisive sono tanto lontane quanto svelate: «ah, ecco, hanno fatto così!». Più che una tragedia, c’è un Sapientino in scena.
Ma ciò che fa storcere davvero in naso è la ricerca continua, incessante, maniacale dell’epicità. Macbeth è un dramma forte, duro, ma non è epico. Eppure De Fusco pretende l’epicità, la cerca dovunque, in ogni caso, in ogni scena, in ogni occasione. Pretende di spremerla dall’interpretazione come si spremerebbe un limone ma non va. Macbeth non è epico.
L’horror vacui è al servizio di un tutto che non sembra niente e che non fa altro che disturbare. Continuare a riempire vuoti non serve a nient’altro che frammentare, da un lato, una storia tanto corta quanto complicata e, dall’altro, ad appesantire una parte di Macbeth che, per forza di cose, è il centro della tragedia e gode di tante parte monologiche. Il risultato? Alla fine del primo tempo, il pubblico si alza stanco e si chiede: «ma non è finito?».
Ancora una volta De Fusco conduce un eccezionale cast verso un non luogo teatrale, dirige magistralmente la recitazione ma massacra tutto con una pretesa registica che insiste su pretese troppo avanti per le proprie capacità. Uno spettacolo, tutto sommato, da vedere per capire come si può fare di un Macbeth un non-Macbeth e, contemporaneamente, una terribile messa in scena.