NAPOLI – Se tra le tragedie di Shakespeare dovessi scegliere la più cruda, sicuramente andrei sul Mercante di Venezia. Ma se mi si chiedesse di scegliere quella in cui è la tragedia più umana, allora non avrei da rifletterci molto. È il Giulio Cesare.
Nello spettacolo in scena al Teatro Mercadante fino al 19 febbraio, il sangue, che scorre nelle idee dei protagonisti prima ancora di essere versato, non lascia scampo ai personaggi shakespeariani che vivono la Roma di Cesare. La corte è un insieme di lupi famelici, complesso disordinato e dannatamente cattivo che si muove intorno al Princeps, che ne studia i passi, ne declina gli onori e si appresta a condividerne gli interessi e farli propri.
La regia dello spagnolo Àlex Rigola disegna una Roma terribilmente contemporanea, terribilmente contorta e tragicamente umana. Tuti i personaggi – tranne Cesare – sono formali attori di una società conformata in cui la violenza sembra essere l’unico modo per garantire la pace e far quadrare i conti. Pantaloni neri, camicia bianca, bretelle nere. Le donne tutte con la coda e, poi, tutti, al giusto tempo, indossano costumi da lupi. Potrebbe sembrare anche divertente, ma non lo è. L’atmosfera e greve e, nonostante sia questo il tempo giusto, in scena non è carnevale.
Non c’è scenografia, solo una enorme fabbrica di legno bianca su cui si stendono continue proiezioni quasi monocromatiche intente a creare più atmosfera che scena, a ricordare quanto i temi della tragedia siano vicini a quelli che viviamo oggi. La ricerca del bene attraverso i male, la guerra per stabilire la pace.
Nella costruzione della tragedia – complesso infinito di intrighi e mezze parole – si muovono gli attori del Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale. Su tutti, un Michele Riondino nei panni di Bruto che riesce appeno a far vivere la crudele parabola crudele di un personaggio tra i più complicati del panorama shakespeariano.
La messa in scena è padrona di un disordine ed ordine continuo, in cui la musica – neuwave – si accosta ad uno stile estremista come le posizioni che i personaggi continuano ad avere in scena. L’idea domina il delitto, diventa ispiratrice e comanda una scena in cui le pedine sono mosse dallo scopo, fin quasi a scomparire, a perdersi nella uniformità dell’abito per fare emergere solo Cesare, prima, e Marco Antonio, dopo.
I passaggi più intimi – e più feroci – lasciano la voce piena per il microfono. Dapprima due e, poi, tanti durante il secondo atto – segnato dall’avvio e conclusione della guerra civile – posti sulla ribalta a cui gli attori si avvicinano per dare più forza, più sfumature e più umanità a quei pensieri che, per la loro incidenza, dànno più forza all’intero spettacolo.
Il risultato di Rigola è una messa in scena complessa, articolata, a tratti macchinosa e difficile da seguire, ma entusiasmante. Il suo Giulio Cesare lascia senza fiato, avvolge il pubblico, lo fa inorridire davanti al sangue del delitto – che gronda dalle mani degli esecutori – lo fa entusiasmare alle parole di Marco Antonio e lo sconvolge davanti ad un finale non scontato. Perché Àlex Rigola riesce a catapultare Shakespeare in una contemporaneità non scontata, lungi da ogni possibilità di immaginazione.
Uno spettacolo di innovazione, di quelli che sanno affrontare questo taglio senza pretese, con profonda umiltà, per poi sbaragliare qualunque cosa si sia già visto. Il Giulio Cesare di Rigola non lascia scampo, a chi ama il teatro ed a chi lo anche solo apprezza. Da vedere. E, se possibile, rivedere.