Il Nabucco firmato Oren-Trespidi sorprende la Reggia di Caserta

CASERTA – Nabucco. A citare la sola parola non può non venire in mente il Va pensiero. È un riflesso automatico che, credo, si riversi in chiunque. Personalmente, lego il riflesso alla scena di un film, Sissi – Destino di una imperatrice (per la regia di Ernst Marischka) in cui una splendida Romy Schneider appena giunta nel palco reale del Teatro alla Scala di Milano viene accolta dagli irredentisti italiani con questo brano e, non rispondendo alla provocazione, applaude apprezzando l’esecuzione.

Stavolta non siamo in un film. Non siamo a Milano, non siamo alla Scala, ma a Caserta, nel primo cortile della Reggia. Non c’è Romy Schneider, ma c’è Leo Nucci, manca Marischka ma c’è Daniel Oren – a dirigere l’Orchestra ed il Coro del Teatro San Carlo di Napoli insieme al Coro del Teatro Verdi di Salerno – e in regia il genius moderno di Stefano Trespidi. Ad un primo sguardo, direi che siamo messi molto meglio del citato film del 1958 (in parte girato anche alla Reggia di Caserta) in una serata, quella di ieri, che segna il secondo appuntamento di Un’Estate da Re, iniziativa promossa dalla Regione Campania.

Come accaduto lunedì – recensione qui – ancora una volta sold out. Ancora una volta 2.800 posti tutti venduti in pochissimo tempo ma, ancora una volta, riesco ad abbandonare l’area stampa per una terza fila zona centrale. Mentre mi interrogo sul concetto obiettivo di sold out, noto di essere oggettivamente meglio posizionato del concerto di qualche giorno fa ma, girandomi intorno, non posso non notare che i posti vacanti sono davvero pochi, praticamente nessuno sui gradoni. Solo in platea si rischia di trovarne (i soliti inviti andati a vuoto?).

Tante personalità, tanta gente comune, tanti giunti da Napoli, tanta politica e tante istituzioni. Il presidente De Luca presente (pur arrivando in ritardo) sceglie di non salutare tutti e non salire sul palco. Decisione apprezzabile. C’è poco tempo per le chiacchiere, l’orchestra c’è e il maestro Oren si accosta. Siamo pronti, il Nabucco è in scena.

Oren strabilia dai primi istanti. È irrequieto, emozionato, permeato dalla musica come solo un grande può esserlo. L’orchestra lo segue (anzi, lo insegue), dapprima a fatica e, poi, riesce trascinata dalla forza di un uomo che salta, si emoziona, sbraccia e dirige con un frenetica passione come non ne ho mai viste prima. È un atleta ed attore nato (talvolta c’è più spettacolo che direzione d’orchestra), capace di muovere e smuovere orchestra e cantanti con uno sguardo, la punta di un dito, un movimento della mano. La bacchetta non ha pace, strumento percosso ed invaso di una arzigogolata dialettica gestuale che, dopo aver sorpreso anche gli spettatori nei primi minuti, è già legge e sarà pronta a dare voce a tutto il dramma. Siamo solo all’Overture, ma Oren ci ha già fatto capire quello che ci aspetta.

Overture, Gerusalemme. Nabucodonosor è alle porte. L’opera è iniziata e l’incipit solo musicale ha, per scelta registica, un corrispettivo scenico. Molto bello, elegante, raffinato azzarderei, che cala nella nervosa ordinarietà di una città che vive gli ultimi istanti prima dell’invasione. Scena bella, breve. Dopo un discreto vuoto scenico, alcuni figuranti che corrono da un lato all’altro del palco. Scena non bella, brevissima. I figuranti corrono terrorizzati e «telefonano» lo stato di tensione che seguirà. Abbiamo appena cominciato e il problema più evidente è già saltato all’occhio: l’horror vacui.

La regia si muove, così, dai primi istanti tra alti e bassi, attraverso una continua paura del vuoto, una frenesia che punta ad occupare ogni centimetro quadrato di palcoscenico ogni volta che ce n’è la possibilità. Il Nabucco, potrei azzardare, è una storia che si sa, sostanzialmente la stessa dal 1842, allora perché prevedere inserti ansiosi e complicanti? La risposta resta un mistero anche perché lo spettacolo è tutto in discesa, raggiungendo punte di perfezione registica che non possono non coltivare dubbi su tutto ciò che si è visto prima e riuscendo, con una strana ironia, a riempire davvero tutti i centimetri quadrati di palco ma plasmando le masse con una capacità pittorica davvero invidiabile.

Al caos primordiale segue, così, un Nabucco sempre più ordinato e squisitamente colloquiale, capace di farsi apprezzare sempre in scene dalla grande complicatezza ma pronte a non più stranire lo spettatore che, solo fino a pochi minuti prima, aveva difficoltà anche a capire chi stesse effettivamente cantando e, solo pochi istanti dopo, è emozionalmente immerso nella pervadente passione e nel forte simbolismo che Trespidi assegna all’intera messa in scena.

L’opera diventa, così, un crescendo sempre più eccezionale e sempre più emozionante. Il centro della scena è l’ara, da un lato spazio sacro destinato al sacrificio (dall’ebraico herem, חרם, votato allo sterminio) e dall’altro spazio della scelta, della decisione e della condanna. Il centro scena assume un carattere simbolico, equamente interpretato di ebrei ed assiri, sede della sacralità profonda e della de-sacralità profonda, campo di battaglia tra Jehovah e gli dèi pagani dei babilonesi, tra la pretesa di divino riconoscimento di Nabucodonosor ed il sacrificio di Fenena, tra la legge d’Israele e la caduta dei miti pagani.

Lo spazio scenico diviene completamente sacro nel picco drammatico del Va’ pensiero, interpretato magistralmente da una massa di coro e figuranti che estende il proprio spazio al di là della scena (non solo nel bis disposto tra il pubblico) ma figurale, concedendo all’interpretazione una visione escatologica che emoziona, trascina e tocca nel profondo in modo sublime ed inaspettato. Una scena magica – eseguita, da tradizione, secondo le modifiche al testo di Verdi e non seguendo il libretto di Solera – sacra per la virtù e la poesia del testo e della musica, diretta con passione e commozione da un Daniel Oren figlio della terra d’Israele.

Alla impeccabile orchestra si alterna per tutta l’opera un coro davvero ben ordito, capace di mescolarsi senza soluzione di continuità con una grande massa di figuranti che lo trasformano, per magia, un’unica anima corale, interprete spirituale delle scene più complicate, anche quando mal disposto spazialmente (soprattutto nelle prime parti). È un esplosivo corpo unico del Va’ pensiero, emozionante ed emozionato che trema dei brividi del pubblico e delle vibrazioni della scena. Da apprezzare il lavoro di Marco Faelli, maestro del coro.

I solisti, davvero maestri nell’arte canora, presentano, talvolta, una scarsità interpretativa scenica che lascia a dir poco sconcertati. Se Leo Nucci è un Nabucodonosor senza pari, interprete canoro e scenico di una drammaticità senza pari, da brividi in ogni istante che lo ha visto in scena ed In Sung Sim è il giusto Zaccaria da porre a contraltare di cotanto interprete, non lo stesso si può dire degli altri, spesso viziati da una estetica assolutamente assente rispetto al carattere della scena. Peccato veniale se fossimo stati ad un concerto, ma grave considerando che siamo a teatro.

I costumi di Giusi Giustino sono eccezionali. La scenografia è imponente, capace di grande trasformismo, improntata sulla ripresa degli stili e sul blu della porta di Ishtar di Babilonia (conservata al Pergamonmuseum di Berlino) e di elementi grigi, di forte contrasto, via via posti in scena in particolari situazioni a cui è assegnato anche l’obbligo di rispondere a scene in cui anche l’architettura deve rispondere ad una determinata dinamicità.

La scenografia sorprende, ma è il vero problema di questo Nabucco firmato Oren-Trespidi. All’opera architettonica di Alessandro Camera va riconosciuto il merito di aver reso davvero spettacolare questa messa in scena ma anche di averla distrutta e frammentata in una complessità di scene che talvolta, nelle riprese, assumono toni da ridicolo. In effetti, durante la serata, si è assistito a due spettacoli: c’è il Nabucco in scena, quello illuminato, ed il Nabucco al buio, quello dei cambi scena. Pur riconoscendo l’ammissibilità delle pause, non ne riconosco una necessità temporale di quasi un’ora e mezza necessaria al corretto svolgimento dei cambi tecnici, così come avvenuto. Senza dimenticare che diversi cambi non sono stati svolti tra una parte e l’altra ma tra una scena e l’altra, lasciando il pubblico in attesa – accecato dalle luci rivoltegli contro – e rompendo la catarsi fin lì profusa. Se da un lato si è dimostrato quanto si possa fare con una scena fissa, quattro gradinate e poco oltre (e, ne sono certo, si sarebbe potuto continuare a dimostrarlo ad libitum se ci fosse stato uno spettacolo di più ore) e dall’altro si è dato davvero un gran contributo alla spettacolarità delle scene, è ingiustificabile il tempo dato a queste operazioni. Davvero la peggior nota di una serata che ha dato molto. Onore, comunque, agli attrezzisti: hanno lavorato davvero tanto.

La Reggia di Caserta è nuova a queste operazioni di tale peso artistico. Un’Estate da Re ha regalato e sta regalando un uso ed una capacità emozionale nuova al monumento casertano. Seppur con qualche problema, il Nabucco di ieri è stato un grande successo gustabile – anche grazie a qualche soluzione (su tutte, la proiezione del testo durante l’esecuzione) – sia da un pubblico abituato ai grandi teatri che a chi si è approcciato per la prima volta ad un’opera lirica.

L’opera di Oren e di Trespidi è un’ottima opera. Se riconosciamo che il tutto è stato costruito in poco più di venti giorni e mettendo in gioco grandi nomi insieme a circa centocinquanta figuranti (per lo più privi di esperienza anche solo teatrale), l’impresa assume caratteri tra il ciclopico ed il miracoloso ed io spero di rivedere presto qualcosa di simile. Perché no, magari con gli stessi maestri. E, perché no, ancora con qualche grande interprete. Sono sicuro che ci sarà da emozionarsi.