La Gatta Cenerentola mutua dall’originale napoletano, che si chiamava La gatta cennerentola, la più celebre delle fiabe, scritta da Giambattista Basile. La storia di Cenerentola esisteva da molto prima, come racconto orale tramandato sin dall’antichità, in centinaia di versioni provenienti da molte parti del mondo, con molta probabilità di matrice orientale. Dopo il suo approdo su carta, precisamente nella raccolta postuma de Lo cunto de li cunti del 1634-1636, la fiaba passa anche in una serie di celebri raccolte di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm, e non solo: la Disney ne farà un film d’animazione nel 1950.
Ma il filo rosso della storia della “iatta” ha un destino diverso; negli anni settanta viene adattata da Roberto De Simone al teatro, e alla base vi è un lavoro di ricerca operato dall’autore e dal suo gruppo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, nelle tradizioni orali e musicali del Sud Italia. Con una veste popolare napoletana, insieme ad altri racconti della raccolta dello scrittore seicentesco, diventa più affine alla vera protagonista, la città di Napoli e le molteplici facce e maschere –se pensiamo, ad esempio, alla figura del munaciello e dei femminielli– riprendono posto quasi con naturalezza nella scena.
Stessa naturalezza che troviamo nel nuovo e conturbante film diretto da ben quattro registi, in ordine sparso Ivan Cappiello, Dario Sansone, Marino Guarnieri ed il figlio del critico letterario Michele Rak, che ha studiato la genesi del racconto fiabesco nella cultura europea della prima modernità, Alessandro Rak, conosciuto ai più per il precedente lungometraggio L’arte della felicità.
La protagonista indiscussa è ancora Napoli, collocazione precisa, a differenza del tempo, che sembra racchiudere tutte le ere, tutti i tempi. Dipinta da ombre, queste lasciano poco spazio all’innovazione portata dalla nave descritta come fiore all’occhiello dell’ingegneria navale italiana, una città della scienza galleggiante che immagazzina tutto il sapere per poi riproporlo ai posteri sotto forma di ologrammi. Almeno era questa il modo.
Il fiore nascente finisce con l’essere deturpato e calpestato da un re avido, che ostacola il superamento della condizione precaria della città, uccidendo il suo creatore-armatore, nonché padre della disgraziata Mia, la “iatta” in questione. Di qui la nave diventerà piano piano un coltello a doppia lama per i facinorosi; non avendo avuto neanche il tempo di raccogliere il sapere, ma solo ricordi e impressioni dei presenti sulla nave, quest’ultima ricorda e si fa ricordare. E avrà un ruolo fondamentale nella devastazione finale, la quale comporta una vittoria per i buoni, la sconfitta e la morte per i cattivi, ma soprattutto uno scacco per la città, privata in definitiva di questa risorsa promettente. Insomma, una fine molto simile a quella della città della scienza, e un finale non propriamente da favola.