La Medea di Euripide stupisce nella rilettura di Gabriele Lavia al Mercadante di Napoli

NAPOLI – Amore, passione, tradimento, figli, lacrime, forza, grida, sangue, carne, vendetta. Se volessi tradurla in sole dieci parole – una nuvola di tags molto social – sarebbe così descrivibile la Medea adattata e diretta da Gabriele Lavia ed andata in scena dal 17 febbraio e fino a ieri al Teatro Mercadante di Napoli come parte del cartellone 2016/17 del Teatro Nazionale.

Una scena cruda, di ferro e ruggine, cruda e rossa come la terra, quella ricca di ferro ed intrisa di sangue. La terra di un delitto, la terra del più terribile delitto: la vendetta. Una scena ferma, fatta di blocchi inamovibili, parallelepipedi variamente disposti che diventano panca, tavolo, letto, sedia, parete, armadio e tutti quegli accessori che troverebbero giusto posto in una casa moderna.

Medea urla, piange, si dimena, non ha pace. È la donna ferita, la donna tradita, la donna umiliata. Lei ha messo da parte tutto da parte per seguire Giàsone ed, adesso, tradito da quest’ultimo non può far altro che affogare nelle lacrime del dolore. E progettare la vendetta.

Questa la premessa antica – quella del dramma di Euripide andato in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 431 a.C. La rilettura di Lavia è carnale, un tuffo nel dolore in cui la vendetta è la sola via d’uscita percorribile. Al sangue – citato, sperato, invocato, sperato – fa da contraltare l’acqua, tanta e diversa: l’acqua da bere, l’acqua che lava, l’acqua che porta via lontano, l’acqua che sgorga davvero (con non poca sorpresa) sul palco, l’acqua artefice della terribile magia della strega della Colchide mescolata col veleno.

Il coro, sempre presente in scena, è un muro di donne in trench chiaro e borsalino, tutti insieme, tutte in coro, tutte terribili partecipi della vendetta di una donna che cerca una dignità pura seminando – con tragica ironia – una morte tanto terribile da andare al di là di ogni immaginazione.

La luce è forte, presenza tagliente e crudele in uno spettacolo tutto in controluce, con le ombre tagliate di nero ed i colori soltanto sfiorati, come lavati già via dal dolore della tragedia. Il dramma – quello forte, vero, cruento – anche se solo narrato dai messaggeri – nel rispetto delle unità aristoteliche – solca il viso degli attori e segna con forza tutta l’esperienza del pubblico. La luce, in particolare, è anche sipario ed intrigante è anche il lavoro sulle luci della sala, usate fin dal primo istante come concorrenti alle luci di scena.

Le musiche di Giordano Corapi sono precise, forti, puntuali. Il timpano che segna il dramma – come nella migliore tradizione della tragedia antica – fa tremare sala e pubblico e non manca di incutere un certo timore. Federica Di Martino è una Medea perfetta, cruda, carnale, passionale. Daniele Pecci è il Giàsone opportunista e meschino, traditore e calcolatore.

La traduzione prescelta – quella di Maria Grazia Ciani – inquadra bene il taglio voluto da Lavia e sposa con grande felicità la cupa atmosfera della messa in scena (anche se cede alle lusinghe dell’accento latino: Giasòne e non Giàsone). I tagli al testo originale escludono il rapporto di parentela di Medea con il dio Sole e portano la tragedia entro termini più fisici e carnali, volutamente più moderni.

Scelte poco felici nel finale, con una scelta di fare avvenire in scena la morte dei figli di Medea (ma senza dare alcuna incisività e lettura all’avvenimento) e con una doccia (sì, una vera e propria doccia) della protagonista che, denudata, si sciacqua davanti al pubblico presso una doccia che, fin dal primo istante, faceva fin troppo presagire il suo uso. Ciononostante, il lavoro di Lavia è una Medea di rara intensità, bella fin dal primo istante e senza delusioni fino alla fine. Un esempio di rara bellezza per le scelte registiche ed artistiche che avrebbe molto da insegnare a tante riletture classiche che vengono offerte ad ogni nuova stagione.