Lungo i sentieri rocciosi del Wyoming, una diligenza corre più forte del vento. Un vento che promette furia e tempesta. Ultima corsa per Red Rock, la diligenza si arresta davanti al Maggiore Marquis Warren, diligence stopper e cacciatore di taglie nero che ha servito la causa dell’Unione. Ospitato con riserva da John Ruth, bounty hunter che crede nella giustizia, meno negli uomini, Warren lo rassicura sulle sue buone intenzioni. Il viaggio riprende ma il caratteraccio di Daisy Domergue, canaglia in gonnella condotta alla forca, lo interrompe di nuovo. La sosta imprevista incontra e carica tra chiacchiere e scetticismo Chris Mannix, un sudista rinnegato promosso sceriffo di Red Rock. Incalzati dal blizzard, trovano rifugio nell’emporio di Minnie dove li attendono un caffè caldo e quattro sconosciuti. Interrogati a turno dal diffidente John Ruth probabilmente nessuno è chi dice di essere.
Secondo western e ottavo film per Quentin Tarantino, The Hateful Eight è ossessionato dalla nozione di identità, reale o supposta dei suoi personaggi e di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale. Ma Tarantino non è Spielberg. Se l’uno riduce in forma di dialogo il potere (Lincoln), l’altro lo esplode con un colpo di fucile e lo schizza sul muro. ‘Allungato’ sullo schermo, l’autore americano prosegue sul sentiero battuto da Django e sorprende sulla strada per Red Rock una diligenza in fuga dai fantasmi della guerra civile.
Se Come sposare un milionario dimostra che il Cinemascope funziona anche per le gambe di Marilyn Monroe accomodate su una chaise-longue, The Hateful Eight assicura che l’Ultra Panavision 70, glorificazione dello spazio orizzontale, può ‘servire’ otto bastardi in un interno. Perché Tarantino sceglie di ripristinare un formato abbandonato nel 1966 non tanto e non solo per distendere i paesaggi del Wyoming ma per filmare le interazioni degli attori dentro uno spazio chiuso. Riparati in un rifugio e disposti come pedine su una scacchiera, gli otto hateful di Tarantino agiscono in primo piano e sullo sfondo.
I due livelli di visione permettono allo spettatore di non staccare mai gli occhi dai personaggi e dalla relazione che ciascuno di loro intrattiene con l’altro, in un clima di paranoia che monta. Spinti da un vento polare in un ricovero alla fine del mondo e separati dal mondo, i nostri non smettono di mostrarsi a vicenda documenti, lettere, mandati, ordini di missione, avvisi di ricerca per provare che sono esattamente chi dicono di essere. Ma i dubbi restano e maturano tra una tazza di caffè e un bicchiere di cognac. Sceriffi designati, cacciatori di taglie, cowboy nostalgici, generali in pensione, gangster nomadi, burocrati forbiti, ex soldati incazzati, bianchi, neri, messicani, confederati e unionisti, non manca davvero nessuno nella pièce western di Tarantino, magma incandescente degli Stati Uniti nascenti che scalda i rancori e cova una diffidenza post guerra civile.
La tensione sale lenta dalle piste innevate e si addensa nel rifugio, accomodandosi su poltrone ‘macchiate’ e avvolgendosi intorno al maggiore di Samuel L. Jackson che alla maniera del dottor Schultz di Christoph Waltz, rivela la sua natura tarantiniana, dominando la parola e le armi. Mediatore tra il film e lo spettatore, Jackson distrae l’occhio mentre l’azione continua e ‘avvelena’ l’ambiente, caricando di indizi e pallottole le colt. L’intrigo avanza con la meticolosità di un’istruttoria giudiziaria in cui il silenzio è d’oro e la parola parla per ridistribuire i ruoli simbolici dell’avvocato, della vittima, del sospettato. Il film di Tarantino finisce allora per assomigliare a un tribunale che blatera di impiccagioni, omicidi legali, legittima difesa, normalizzazione della violenza, messa a punto della giustizia. Ma di quale giustizia si tratti, al d là del Cristo misericordioso seppellito dalla neve nel piano iniziale, lo comprendiamo presto al cospetto di un branco di iene riunite per ‘deliberare’ chi meriti la vita. Evidentemente nessuno.
Così la seconda parte di The Hateful Eight, disposta con pazienza e congegnata con un’inusitata forza di concentrazione per l’autore, si abbatte sul film consacrandosi interamente alla messa in scena. Svelamenti di identità, dislocamento dei punti di vista, flashback e voce off frugano nel cuore del già filmato, triturando come d’abitudine e avvicinando gli otto squilibrati alle reservoir dogs. Al diritto e alla verità (di facciata) predicata nei primi capitoli replica nei successivi l’artificio e il godimento di un linguaggio conosciuto, abortendo la catarsi e vomitando letteralmente il ‘concentrato’ del genere.
Introdotto (nella versione in 70 mm) da un’ouverture, ripartito in cinque capitoli e interrotto da un (vero) intervallo che sgranchisce le gambe e ritarda il piacere, The Hateful Eight ribadisce gli attori di culto (Samuel L. Jackson, Tim Roth, Kurt Russell, James Parks), convoca Jennifer Jason Leigh e Channing Tatum e attesta Walton Goggins e Bruce Dern, che si accordano magnificamente per soddisfare l’intenzione politica di Tarantino. Politica che agiscono nell’arena e sulla partitura originale (e ostinata) di Ennio Morricone, conciliando autorialità e blockbuster.
Parlano allo sfinimento gli hateful eight e quando esauriscono le parole, caricano i colpi e si sparano addosso. Tarantino insiste sul cambio di marcia realizzato con Bastardi senza gloria e sulla politicizzazione del suo cinema, svolta in superficie dalla contaminazione di immaginari e iconografie, innescata al fondo nei dialoghi e portata alle stelle da personaggi che hanno (anche) qualcosa di serio da dire. Dopo aver rinfacciato al western americano classico il suo razzismo e restituito colpo su colpo i torti cinematografici inflitti da D.W. Griffith (Nascita di una nazione), Tarantino guadagna al suo eroe nero un diverso ruolo sociale. Samuel L. Jackson, ‘negro di casa’ infame in Django Unchained, scende in campo e guadagna sul campo (di battaglia) la sua libertà. Diritto legittimato da una lettera di Lincoln (macguffin millantato e martellante) e speso a uccidere bianchi, incassare ricompense, regolare conti. Cattivo tra cattivissimi non sfugge nemmeno lui alla ‘giustizia’ tuonante di Ezechiele 25:17 e alla canaglia che non aveva proprio considerato. Nondimeno, più pietoso di un dio vendicativo, Tarantino riconcilia vita e morte sotto la neve. Precipitazione pura e sudario, la neve crepuscolare di Sergio Corbucci (Il grande silenzio) e André de Toth (Notte senza legge) cade su un drappello di miserabili, lascito della Guerra di Secessione nel corpo sociale americano. Tempestosa o inerte copre il nero e il bianco. Non prima di aver (r)accordato dentro l’ultimo quadro la struttura (letteraria) di Lincoln con quella barbara dell’impiccagione, la trattativa con l’azione pura, i principi democratici con le devianze reali. Sipario.
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